Il crollo di Barletta

Prendendo spunto dal crollo di una palazzina a Barletta (avvenuto il 3 ottobre 2011 e che ha causato la morte di 5 donne, tra le quali una ragazza quattordicenne) voglio affrontare, per sommi capi, la questione della sicurezza strutturale in Italia. E’ ovvio che l’argomento richiederebbe più spazio e una serie di apporti multidisciplinari. Mi limiterò, allora, a qualche riflessione, con una sincerità che rasenterà il cinismo.

Inizio col dire che la questione è vecchia come il cucco e che l'insensibilità per la sicurezza strutturale (nostra e, soprattutto, degli altri) è atavica. Giovenale diceva: «… chi ha mai temuto che gli cascasse addosso la casa nella fresca Palestina o a Bolsena, fra i colli boscosi, oppure nella semplice Gabii, o ancora sul colle di Tivoli che digrada in declivio? Noi, invece, abitiamo in una città (Roma, N.d.R.) che per la maggior parte si regge su esili puntelli, unico provvedimento offerto dagli amministratori alle strutture fatiscenti. Le lesioni dei vecchi dissesti murari vengono stuccate e poi ci ordinano di dormire tranquilli in un edificio in pericolo di crollo».

Il quadro, oggi, è molto cambiato rispetto a quello che dipingeva Giovenale 20 secoli orsono? Parrebbe che pure pochi giorni fa siano stati tranquillizzati gli abitanti del fabbricato di Barletta e che siano mancati anche gli «esili puntelli» ai quali Giovenale faceva riferimento.

Da che mondo è mondo, qualche casa (di tanto in tanto) crolla, se è vero che le prime leggi che regolamentano la responsabilità dei crolli strutturali risalgono al tempo del sesto re di Babilonia (1792-1750 a.C.) e sono note come il Codice di Hammurabi, il quale – molto pragmaticamente – prescriveva che: «Se un costruttore costruisce una casa per abitazione e non la rende solida e la casa costruita crolla causando la morte del padrone della casa, quel costruttore sarà messo a morte. Se causa la morte del figlio del padrone della casa, sarà messo a morte il figlio del costruttore …».

E’ meglio il Codice di Hammurabi (asciutto ed essenziale, anche se basate sulla «legge del taglione») o le nuove NTC2008? Di certo il codice di Hammurabi – nella sua scarna essenzialità – non dava scampo (ai costruttori) per sottrarsi alle proprie responsabilità.

Non vi è dubbio che le questioni legate alla sicurezza delle strutture non trovano l'attenzione che meriterebbero, né nell'opinione pubblica, né tra gli amministratori ed ecco la principale causa dei crolli: la gente preferisce spendere i soldi per gli abbellimenti e non per i consolidamenti. Si rottama tutto, ma non le costruzioni fatiscenti. Occorrerebbe sradicare, dalla mentalità dei proprietari, la tendenza ad agire in base al motto «stucco e pittura fan bella figura», di curare solo l’estetica (pure importante) di uno stabile, fregandosene della statica (più importante dell’estetica).

E’ fuor di dubbio l’importanza della staticità delle costruzioni.

Francesco Milizia (1725 – 1798) così introduceva la parte terza (titolata «Della solidità delle fabbriche») del Suo testo sull’Architettura Civile:

«Il più essenzial requisito degli edifizi è la solidità, senza di cui la bellezza, la comodità, la magnificenza divengono un nulla. La sicurezza della propria vita, il dispendio e l’incomodo di rinnovare spesso la costruzione sono cose di sì grave importanza che impegnano a qualunque precauzione per assicurare a qualsiasi edifizio la più lunga durata.
L’uomo desidera in tutto il durevole. Gli antichi, spinti da questo desiderio, e dalla gloria di lasciare alla posterità più remota riprove grandi della loro perizia, non risparmiarono niente per dare alle loro fabbriche quella fermezza, che ha trionfato d’ogni accidente. Si veggono sparsi per l’Europa, e specialmente in Roma vari edifizi, che hanno circa due mila anni, e che non mostrano altro segno di vetustà, che il loro colore offuscato, e benché senza cura, anzi a dispetto di ogni strapazzo per distruggerli, sussistono ancora con nostro stupore, e sussisteranno ancora per ammirazione dé nostri posteri più lontani».

Il Milizia, quasi tre secoli fa, non solo ribadiva il pensiero di Vitruvio, secondo il quale "firmitas", "utilitas" e "venustas" era il trinomio che formava la "ratio", cioè l'attributo unico ed insostituibile di un'autentica opera architettonica ma, anticipando i nostri tempi, poneva l’accento sulla durabilità di una costruzione, compito di cui deve farsi carico, innanzitutto, il progettista delle strutture.
Nell’opera citata – subito dopo le parole appena riportate – il Milizia incalza affermando: «Gli artisti moderni par che abbiano perduto il gusto della solidità. Si dubita, se le loro opere possano sostenere l’assalto appena di tre secoli».

Troppe volte mi è capitato di vedere proprietari dissanguarsi per ristrutturale appartamenti in maniera lussuosa, lasciando i solai fradici sotto i piedi e le crepe nei muri, pietosamente coperte da un velo di intonaco.

Quindi, il primo passo – per ridurre il numero delle future vittime di cedimenti strutturali – è quello di far comprendere a tutti che la parte staticamente efficace di una costruzione ha la sua importanza e che non bisogna occuparsi solo dell’estetica, quando si mette mano su una costruzione.

So di enunciare delle ovvietà, ma, nonostante che le cose dette siano ovvie, non le vedo per niente recepite.

Altra cosa ovvia è comprendere che tutte le cose umane hanno un inizio e una fine. Le costruzioni non sfuggono a questa regola.
Potremmo dire che anche il fabbricato più recente, progettato e realizzato puntando all’ottenimento della massima durabilità e con materiali di qualità è destinato a trovarsi, in futuro, in una situazione di precarietà statica. Sisto Mastrodicasa diceva: «Ma come in natura tutto cospira alla caducità delle cose, così nelle strutture di fabbrica, sotto il dominio di questa legge fatale, innumerevoli circostanze tendono a vulnerare la resistenza del materiale rendendo effimere le opere da noi costruite». Il trascorrere del tempo, purtroppo, vede prevalere la Natura, che si riappropria delle cose umane (anche delle costruzioni) nessuna delle quali è destinata a durare in eterno. Le costruzioni, poi, dovrebbero essere assoggettate a periodici controlli ed, eventualmente, a interventi di ripristino e di adeguamento sismico. Inoltre, molti edifici di edilizia corrente non sono destinati ad attendere la parusia, potendo tranquillamente essere demoliti e ricostruiti. Come si rottamano le auto, andrebbero rottamati anche gli edifici (ovviamente le catapecchie, non certo quegli edifici meritevoli di conservazione, rappresentativi del gusto e della sensibilità di un’epoca). Non è mia intenzione distruggere le memorie del passato. Tutt’altro, vorrei conservarle il più possibile, assoggettandole a cure assidue.

Le automobili – prima di essere rottamate – sono revisionate. Il Codice della Strada prevede che i veicoli a motore e i loro rimorchi debbano essere tenuti in condizioni di massima efficienza. Una normale automobile ad uso privato deve sottoposti a revisione periodica a partire dal 5° anno dalla prima immatricolazione, al fine di accertare il rispetto delle condizioni di sicurezza, il mantenimento del rumore e delle emanazioni inquinanti entro i limiti di legge. Perché per i fabbricati ciò non vale?

L’attuale Normativa – stabilendo una «vita utile» per una costruzione – ha preso atto che nessuna struttura è destinata a durare in eterno. Le opere del passato hanno superato, spesso indenni e senza speciali manutenzioni, molti secoli, ragion per cui il concetto di «vita utile» appare maggiormente riferito alle tecnologie costruttive attuali (cemento armato, acciaio), le quali non sembrano garantire, a meno di importanti e frequenti manutenzioni, un’analoga durabilità delle opere del passato. Comunque, non è possibile affermare: «Questo edificio sta in piedi da secoli e, pertanto, resterà in piedi fino al giorno del giudizio finale e della consumazione dei tempi». Non è, evidentemente, così. Non pochi edifici del passato presentano, invece, problemi di vetustà.
Ed ecco un’altra cosa da capire: un bene edilizio non ha durata illimitata e, trascorsi un certo numero di anni dalla sua realizzazione, occorre un check up, per stabilire il suo stato di salute e decidere se procedere a interventi di manutenzione straordinaria oppure se non è più conveniente demolirlo e ricostruirlo.

L’attuale normativa italiana intende come «vita utile» di una struttura, il tempo nel quale essa – purché soggetta alla manutenzione ordinaria – deve potere essere usata per lo scopo al quale è destinata. Detto ciò, la stessa normativa fissa una vita utile di 50 anni per gli edifici ordinari (Classe 1) e di 100 anni per quelli il cui uso prevede affollamenti significativi, che ospitano funzioni pubbliche o strategiche importanti e via dicendo (Classe 2). La vita utile del ponte sullo stretto di Messina (aldilà da farsi) è stata fissata in 200 anni.

Teofilo Gallacini (medico senese vissuto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo), nel suo singolare «Trattato sopra gli errori degli architetti», diceva: «Che, siccome l'Architetto eterno del maggiore, e del minor Mondo, tosto che formò l'uno, e l'altro, e tosto che produsse qualsivoglia cosa, non l'abbandonò, ma sempre le fu assistente, la difese, e la conservò, siccome ancora continuamente costuma di fare: così l'Architetto temporale non dee, tosto che è finito qualunque edifizio, abbandonarlo, ma bisogna, che gli stia intorno con diligente cura, per conservarlo».

Così come un’automobile richiede dei "tagliandi" e , dopo 5 anni dall’immatricolazione va revisionata, anche uno stabile andrebbe manutenuto e “revisionato” (e lo si potrebbe fare non appena ha spento la torta con 50 candeline, giacché la «vita utile» di un ordinario edificio è fissato pari a mezzo secolo). 

E’ noto che cresce la vita media in Italia: secondo l’Istat nel nostro Paese la speranza di vita è arrivata a 79,1 anni per gli uomini, e a 84,3 anni per le donne. Nell'antica Roma le aspettative di vita erano ben diverse: 41 anni per gli uomini e 39 per le donne (noterei, a margine, che le donne hanno sorpassato gli uomini anche nella longevità, giacché erano 2 anni indietro agli uomini nell’antica Roma e sono 5 anni avanti, oggi). Perché la vita media si è allungata? Perché la Medicina ha fatto passi da gigante e ha ottenuto il risultato di prolungare la vita media degli individui. Oggi si possono eseguire analisi e controlli impensabili appena una ventina d’anni fa, si possono fare diagnosi precoci e precise, salvando non poche vite umane. Analogamente, esistono strumenti che permettono di effettuare una diagnosi del deterioramento di una struttura (prove sclerometriche, ultrasoniche, termografiche e via dicendo). Com’è noto, si può raccogliere una caterva di dati sperimentali riguardanti una costruzione, tramite l'esecuzione di prove che possono essere suddivise in «distruttive» e «non-distruttive». La Tecnica moderna è certamente in grado di consentirci tali indagini (ed, anche, di intervenire in maniera opportuna). Oltre ad un rilievo accurato della struttura e a cercare di reperire il progetto strutturale originario (depositato da qualche parte), si possono effettuare: prove distruttive e/o non distruttive sul calcestruzzo, rilevazione delle armature col pacometro, analisi chimiche per stabilire se sono in atto fenomeni di carbonatazione, monitoraggi dello stato di corrosione delle armature, prove di carico, ecc. Quando si innescano fenomeni di corrosione dell’acciaio di armatura, più presto si interviene e meglio è, per non far lievitare i costi della riparazione.

I dati diagnostici e conoscitivi non andranno dispersi ma raccolti in una sorta di «cartella clinica» dello stabile. Che cosa è una «cartella clinica»? E’ un documento che contiene le informazioni sulla nostra salute, scritte secondo regole precise. A questo punto, salta fuori l’annoso problema del «fascicolo del fabbricato» (che è la «cartella clinica» di un edificio).

Le scartoffie non servono. I «fascicoli dei fabbricati» possono creare confusione, se — invece di affrontare di petto i problemi statici — intendono stabilire se c’è l’antenna TV, se le vetrine sono aggettanti, se gli infissi presentano uniformità tipologica ed altre bizzarrie del genere (che sono utili all’estetica — non alla statica — del costruito). Occorre altro. Serve, innanzitutto, condurre sufficienti indagini diagnostiche e conoscitive di varia natura (geologica, chimica, meccanica, ecc.), al fine di acquisire i dati necessari alla conoscenza strutturale del costruito e propedeutici alle successive verifiche.
Se, viceversa, i «fascicoli dei fabbricati» sono organizzati bene, diventano utilissimi. Ecco, allora, che è necessario neutralizzare il laborioso cretinismo dei burocrati, dando ascolto agli esperti della materia.

Nel caso di Barletta, non serviva un «fascicolo del fabbricato», bensì un «fascicolo dell’aggregato strutturale» del quale lo stabile faceva parte. L’edificio crollato, infatti, apparteneva ad una «cortina edilizia», a un organismo strutturale più ampio. Cioè era parte di un insieme di edifici, disposti, senza soluzioni di continuità, lungo un asse viario urbano. In questi casi, così come il singolo palazzo appartiene ad un unico aggregato strutturale è bene che i singoli «fascicoli dei fabbricati» siano anch’essi legati indissolubilmente fra loro, che siano – cioè – redatti dallo stesso tecnico (e, quindi, siano dei «sotto fascicoli» di quello – unico – dell’intero organismo statico).

Veniamo, adesso, alle strutture in cemento armato.

Osservando le strutture in c.a. intorno a noi, non è difficile imbatterci in esempi non proprio soddisfacenti, sotto il profilo della durabilità. Si rinvengono strutture in cui, da qualche parte, i copriferri sono caduti, lasciando scoperti i tondi d’armatura, oramai più o meno pesantemente corrosi. A volte si interviene applicando, sui ferri, un antiruggine e cercando di ripristinare il copriferro. Raramente gli interventi sono radicali e risolutivi, giacché i costi sono elevati; a volte ben superiori a quelli dell’iniziale costruzione. Le indagini sugli edifici in c.a. hanno una maggiore importanza, rispetto a quelli in muratura perché la semplice osservazione delle membrature strutturali in c.a. può trarre in inganno.

Eduardo Torroja affermava che «il calcestruzzo armato è l'unico materiale il cui comportamento strutturale non si possa giudicare in base ai soli caratteri somatici apparenti». Esistono belle donne malate e racchie sanissime. Analogamente, c’è un calcestruzzo che “si presenta bene” ma ha la stessa resistenza della ricotta di cestino.

In Italia ci sono 13 milioni di edifici e quasi il 70% di essi è stato costruito dopo la seconda guerra mondiale. In particolare, il 50% del patrimonio edilizio italiano è stato edificato tra il 1946 e il 1981 e la stragrande maggioranza di tali costruzioni è in c.a. (molte risalgono all’epoca in cui le armature erano formate da tondi lisci e il calcestruzzo si impastava in cantiere, a volte alla men peggio). Oltre la metà del patrimonio edilizio è realizzato in cemento armato e la gran parte è stato costruito fra il 1960 e il 1980 e senza seguire regole sismiche.
Oggi, com’è noto, non si usano più tondi lisci, bensì quelli ad aderenza migliorata (cioè i tondini – che costituiscono l’armatura – presentano dei risalti, lungo la loro superficie laterale, che migliorano l’aderenza fra acciaio e calcestruzzo, scongiurando il pericolo di sfilamento delle barre).

Ci può essere qualcosa di peggio delle barre lisce? Certamente sì e ce lo dice il Prof. Antonio Michetti, che cita due casi emblematici. Il primo: «Nel 1918, al termine della prima guerra mondiale, vi erano in giacenza in tutto il mondo milioni di tonnellate di filo spinato per la realizzazione di opere di difesa (reticolati e cavalli di frisia), nella previsione che il conflitto finisse nel 1919. Si sono avuti casi in cui tale acciaio è stato utilizzato per costruzioni in cemento armato». Il secondo: «In Italia la politica autarchica applicata negli anni che vanno dal 1936 all'inizio del secondo conflitto mondiale, poneva condizioni particolarmente restrittive nell'utilizzazione dell'acciaio nelle strutture in cemento armato, in quanto l'acciaio doveva essere utilizzato per armare "le ferree Legioni"». Non è che, immediatamente dopo il secondo conflitto mondiale, le cose siano andate meglio: scarseggiavano i materiali da costruzione e si utilizzava di tutto per ricostruire in fretta il Paese e dare un tetto alla gente. Poi si è aggiunto l’abusivismo, che ha permesso la realizzazione di palazzoni con il «fai da te» e i condoni hanno “benedetto” le magagne.

Emergono, quindi, delle responsabilità politiche ben precise. Le ovvietà che ho enunciato sono note a tutti e occorrerebbe affrontare di petto il problema, evitando allarmismi. Bisogna partire con i check up, cioè con con la redazione dei fascicoli dei fabbricati.

Ho deliberatamente fatto numerose citazioni del passato, per far comprendere che non ci troviamo di fronte a problemi “nuovi”, bensì a questioni "vecchie", già affrontate dai nostri avi (che ci hanno indicato, anche, le giuste soluzioni da adottare).

A Napoli occorre iniziare ad esaminare ed, eventualmente, a monitorare gli stabili dei quartieri più degradati (i Quartieri Spagnoli, l’area di Materdei e della Sanità, zona orientale) senza sottovalutare i problemi del sottosuolo. Si stima, ad esempio, che oltre il 7 % del territorio della Circoscrizione napoletana «Stella-S.Carlo all'Arena» si trovi su cavità sotterranee, situate a varie profondità e se malauguratamente dovesse verificarsi l’ennesimo crollo, sarebbe una ipocrisia stupirsene.

Gli antichi edifici – in muratura di tufo – del Centro Storico di Napoli sono, a volte, autentici miracoli della statica. Ed anche questa è storia vecchia. Secoli fa è stato osservato che gli edifici della città «sono così alti come non si veggono in alcuna altra parte del mondo, e se in alcuna parte sono, non si vedranno con questa frequenza …» (Giulio Cesare Capaccio, «Historia neapolitana. Il Forastiero», 1607). Su questa crescita in altezza contribuì il divieto di costruire fuori le mura, mantenuto nei secoli e che aveva costretto il costruito all’interno di un perimetro non adeguato al numero sempre crescente degli abitanti. Anche in questo caso sono stati proposti provvedimenti, rimasti lettera morta. Ad esempio, il principio del diradamento verticale, definito da Roberto Pane quale intervento di bonifica delle soprelevazioni e degli abusi edilizi. Potrebbero, ad esempio, essere sostenuti economicamente i condomini che intendono acquistare superfetazioni, per prontamente demolirle.

Sarebbe, allora, opportuno stabilire quanti fabbricati — costruiti prima del secondo conflitto mondiale e nel trentennio successivo — richiedono interventi di riabilitazione strutturale, sia a causa del cattivo stato di conservazione, sia perché staticamente carenti (spesso le due cose si osservano insieme). Per brevità evito di parlare delle "trasformazioni" che qualcuno ha ritenuto di apportare alle fabbriche e delle inadeguatezze riferite al rischio sismico. Basti dire che prima del terremoto dell’80 poche località erano ritenute sismiche (per tutta la provincia di Napoli, solo il Comune di Casamicciola era considerato sismico, di seconda categoria). Oggi l’intero territorio nazionale è ritenuto sismico.

L’amministrazione comunale di Napoli non può ignorare quanto tratteggiato in precedenza. Non è possibile restare in una posizione di passiva attesa del prossimo crollo o del prossimo evento sismico.
Occorre compiere passi avanti decisi, nella direzione del recupero del patrimonio edilizio esistente e il primo passo è quello di rendere obbligatorio il «fascicolo del fabbricato», finalizzato alla tutela della pubblica e privata incolumità. E’ inutile inserirvi dentro informazioni improprie e dati che dovrebbero essere già in possesso delle pubbliche amministrazioni, rendendo la redazione del fascicolo eccessivamente ed inutilmente onerosa per i proprietari.

E’ evidente che – attivando il «fascicolo del fabbricato» o, in certuni casi, quello dell’«aggregato strutturale» – si   aprirebbero sconfinate prospettive di lavoro per i Tecnici, sia giovani (che garantirebbero l’impegno e l’entusiasmo), sia anziani (che assicurerebbero la necessaria esperienza). Da sostenere è la decisione di istituire un Corso di Master in «Ingegneria forense» (ma, per brevità, è preferibile solo farne cenno, rammaricandomi, però, del fatto che l’accesso non è consentito a chi è in possesso di una Laurea quinquennale in Architettura).

Non vi è dubbio che la partita non si risolve subito (e non si risolve affatto se non affrontata bene, evitando incongruenze, furbizie e piccinerie). Iniziando adesso (con serietà, impegno ed evitando inutili allarmismi) la chiuderemo tra una decina di anni. I crolli li avremo ancora, anche dopo aver effettuato un serio screening sull’edificato esistente e dopo aver messo in sicurezza gli stabili che reclamano una priorità di intervento; ma saranno sempre meno, fino a divenire eventi assai rari (e presumibilmente dovuti ad urti, esplosioni e accidenti pressoché impredibili). E' noto, infatti, che la sicurezza strutturale assoluta (al 100%) non si può avere (puntiamo, più realisticamente, ad un novantanove virgola nove periodico ed è già troppo).

                   Brugel il Vecchio - La torre di Babele

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Commenti

..meglio in Codice di Hammurabi prof...

purtroppo la gente è sempre più superficiale ...