Intervista impossibile a Marcello Canino (Seconda parte)
Vincenzo Perrone incontra Marcello Canino (3 luglio 1895 – 2 ottobre 1970).
SECONDA PARTE
Perrone: «Caro Professore, mi sono ripreso dallo shock del primo round con Lei. Possiamo passare alla seconda parte dell’intervista.
Le dirò, però, che tutto questo nostro scavare nel passato – benché interessante – non mi entusiasma granché. Né – credo – abbia incontrato il favore di chi ci legge.
Vorrei affrontare, con Lei, i problemi dell’oggi e avere dei consigli su come costruire un domani migliore.»
Canino: «Sbaglia, caro Perrone. George Orwell diceva: “Chi controlla il passato, controlla il presente.” A mio giudizio, non è possibile risolvere i gravi problemi del presente, ponendosi fuori dalla Storia. Forse possiamo fare Teologia, ponendoci in una dimensione sovrastorica; ma giammai potremmo fare Politica. Anche la Teologia, però, ha compreso che essa si intreccia con la Storia e che i fatti contengono tutti un significato teologico che li collega a un disegno divino.
Se dovesse prevalere una mentalità – diciamo così – troppo pragmatica (del tipo “risolvi il mio problema contingente e chi se ne frega del perché, del per come, del domani o degli altri”) ci porremmo nella posizione più sbagliata e non determineremmo alcunché.
E’ bene prendere atto che la professione di Architetto – così come l’abbiamo conosciuta noi, in tutto l’arco del XX secolo – è finita. E’ definitivamente ed irrimediabilmente morta. Potremmo dire che si è estinta con la mia generazione e con quelle immediatamente successive, folgorata da un fuoco senza luce. La nostra fine ha portato al trionfo della mediocrità. La mia generazione ha avuto tutto perché prima le fu data la gloria e poi la disfatta. La guerra fu una tragedia e noi demmo più delle nostre vite, demmo il destino del nostro Paese. Altri maledicano e piangano; io sono lieto che il nostro dono sia stato circolare e perfetto.
Oramai un quarto di secolo fa (e io già me ne ero andato da una quindicina di anni) la figura dell’Architetto è entrata in una profonda crisi di identità. E’ subentrata una serena disperazione, un profondo distacco dalla realtà, un'apatia, una ostilità preconcetta verso tutto e tutti. Si è pensato che questa crisi potesse essere risolta … ignorandola e non poteva essere commesso errore più grande.
Gli Ordini professionali hanno concretamente dimostrato, nell’ultimi vent’anni (1991-2011), di non percepire neanche i problemi. Figuriamoci, poi, a risolverli!
Occorre qualcuno/qualcosa che ridefinisca la figura dell’Architetto. Occorrono percorsi formativi nuovi, che rispondano alle profonde mutazioni sociali che sono intervenute, grosso modo dal crollo (9 novembre 1989) del muro di Berlino in poi e con un acutizzarsi dei problemi dopo l’11 settembre 2001, punto d’innesco di una gravissima crisi mondiale. Occorrono organi rappresentativi nuovi, in grado di raccogliere la sfida che i tempi ci (vi) impongono. Tutto ciò non si può fare senza comprendere i motivi che hanno ucciso la professione (come l’ho conosciuta io).
Sa che io sono stato un “crociano” convinto e Croce (nel libro “La storia come pensiero e come azione”) diceva: “La storia nostra è storia della nostra anima; e la storia dell’anima umana è la storia del mondo”.
Quindi, qui non stiamo a raccontare fatterelli o a fare pettegolezzi o a scavare nel passato per fare dei raccontini. Stiamo cercando di fornire una soluzione ai problemi, inquadrandoli nel giusto contesto storico.
Non vogliamo parlare più del passato? E sia! Diamo, però, a chi fosse interessato, una indicazione bibliografica per gli opportuni approfondimenti: Paolo Nicoloso, “Gli architetti di Mussolini – Scuole e sindacato, architetti e massoni, professori e politici negli anni del regime”, E. Franco Angeli, Milano, 1999). Nel suo lavoro (che condivido all’80%) l’Autore mostra come a partire del 1923 - con la riforma (direi con la creazione) delle scuole di architettura, con la nascita del Sindacato fascista architetti e il varo della riforma Gentile - si creò una solida intesa tra i più alti gerarchi del regime, la Massoneria e il ceto professionale degli Architetti. Piaccia o non piaccia, gli Architetti hanno avuto un padre (il Fascismo) e una madre (la Massoneria) e, oggi, li disconoscono entrambi.
Veniamo all’attualità e ai problemi che, benché gravi, non sono insolubili.
Io una soluzione ce l’ho; ma non posso palesarla per due motivi: 1) perché dovrei, prima, enunciare verità scomode, che Le comporterebbero – caro Perrone – grossi “fastidi” (giacché nessuno crederebbe che queste cose le sto dicendo io) e 2) perché a certe determinazioni occorre arrivarci da soli, per convincersi della loro validità e ineluttabilità.»
P.: «Professore, mi pare che, da quando era restio a parlare, adesso sembra che s’è sciolta la lingua. Comunque, insisterei ad affrontare i problemi attuali. Che stavate bene, quando eravate quattro gatti, lo si è capito. E oggi?»
C.: «Chiaromonte ve l’ha detto chiaro e tondo (fa pure rima): gli Architetti, in Italia, sono troppi. A Napoli e provincia c’è un Architetto ogni 340 abitanti. Gli ultimi dati nazionali certi parlano di 1 Architetto ogni 470 abitanti.
Sa qual è la media mondiale? Un Architetto ogni 3757 abitanti.»
P.: «E in Europa?»
C.: «In Francia c’è un Architetto ogni 2128 abitanti. In Inghilterra il rapporto è 1 a 1925, in Spagna 1 a 1214 e in Germania 1 a 1642. La media europea è di un Architetto ogni 1148 abitanti e, senza il dato italiano, il rapporto scenderebbe a 1/1550. Per me il rapporto ottimale è quello spagnolo e il massimo quello francese. Un Architetto ogni 2000 abitanti sarebbe ammissibile in un Paese – come l’Italia – con un immenso patrimonio architettonico da valorizzare e da difendere (purché lo si valorizzasse e lo si difendesse … e Pompei ci dice che non è così). Un Architetto ogni 340 abitanti fa ridere … i polli.»
P.: «Professore, è preparatissimo. Da dove li ha presi questi dati?»
C.: «Da una bella pubblicazione dell’Ordine di Roma, curata da due Architette libere professioniste: Matilde Fornari e Cecilia Pascucci (alle quali non perdo l'occasione di rivolgere i miei complimenti). Ritengo che – da quando è stata condotta questa interessante indagine – la situazione sia ulteriormente peggiorata. Si fa, infatti, riferimento ai dati del 2005: 123.083 Architetti in Italia e 330.803 in Europa (il 37,2% degli Architetti europei vive ed opera in Italia). Oggi, in Italia, gli Architetti sono più di 136.231 (grazie alla mia “evanescenza” entro dappertutto e acquisisco i dati).
Con l’introduzione della Laurea triennale si è gettata benzina sul fuoco.
Mentre in Europa c’è uno studente in Architettura ogni 1895 abitanti, noi abbiamo uno studente ogni 761 abitanti. Come se non bastasse, l’introduzione della Laurea triennale ha creato percorsi facilitati verso la laurea specialistica. Nella sezione A – in tutta Italia – sono iscritti 135.267 Architetti, mentre nella sezione B solo 964 Architetti “junior”. Conclusione: gli Architetti junior sono lo 0,7% degli iscritti agli Albi. Percentuale omeopatica. Ci sarebbe da ridere, se la situazione non fosse tragica.
Purtroppo non è tutto. Mentre in Europa progettano solo gli Architetti, in Italia(e nel settore delle costruzioni, oramai asfittico) imperversano Ingegneri, Geometri, Periti Edili e, adesso, anche gli Architetti junior, di cui non si sentiva la benché minima esigenza.
Infine, abbiamo avuto la ciliegina sulla torta: la creazione della sezione Architettura presso vari Politecnici.
La figura dell’Architetto è stata martirizzata. Abbiamo visto che, facendo il rapporto abitanti/Architetti esce il numero 470 (340 a Napoli e provincia). Facendo, invece, il rapporto abitanti/progettisti (cioè considerando tutti coloro che, legittimamente, possono redigere una progettazione architettonica) quale numero viene fuori? 160? 150? Non riesco a fare il calcolo. Mi prende un capogiro. Vedo che l’impazzimento è … totale. E, come se non bastasse, siamo nel pieno della più grande crisi finanziaria che abbia mai colpito l’occidente dal 1929.»
P.: «Professore, dove vuole andare a parare?»
C.: «Occorre sopprimere le Lauree triennali e “decongestionare” gli Albi, giungendo a un rapporto Architetti/abitanti più ragionevole. Occorre, per l’obesità che si è creata, una formidabile cura dimagrante. E’ necessario stabilire che la progettazione architettonica è di esclusiva competenza dell’Architetto e dell’Ingegnere Civile Edile. Per me non c'é alcuna differenza sostanziale tra l'Architetto e l'Ingegnere Civile Edile.»
P.: «E come si fa? Vogliamo sopprimere fisicamente tre Architetti su quattro?»
C.: «Intanto, caro Perrone, ha indovinato il rapporto: il “dimagrimento” dovrebbe essere del 75%; ma mi accontenterei anche di un realistico 40%.»
P.: «E’ utopia. E’ impossibile. Come si fa? Si estrae a sorte chi resta? L’operazione è impossibile.»
C.: «Hard times hard hearts.»
P.: «Abbiamo finito con il latino ed iniziamo con l’inglese?»
C.: «Sa che io ho partecipato alla prima guerra mondiale e gli austriaci predisposero un manifesto che, grosso modo, diceva: “Nei tempi duri, quando gli obblighi sono più duri, i cuori devono essere duri”. Qua non servono i “pannicelli caldi”. Servono misure coraggiose e dirimenti. E sa a favore di chi?»
P.: «Me lo dica Lei.»
C.: «A favore dei giovani. Quando fu realizzata la Mostra d’Oltremare ponemmo i giovani al centro dell’operazione. Proprio Lei, caro Perrone, ha ricordato che l’età media degli Architetti impegnati in quella operazione fu bassissima: appena 28 anni. E’ una corbelleria? Chi non ci credesse può andare a pag. 221 del libro di Giacomo De Antonellis, “Napoli sotto il regime”, Cooperativa Editrice Donati, Milano 1972 e ritrovare il dato che ho appena riferito.
Occorre nuovamente mettere i giovani al centro di una necessaria riforma, che “progetti” il futuro dell’Architettura in Italia.
In base ai dati Inarcassa 2008, queste sono le percentuali delle fasce generazionali tra gli Architetti:
Fino a 30 anni: 7%
Da 31 a 35 anni: 17%
Da 36 a 40 anni: 23%
Da 41 a 45 anni: 18%.
Fate la somma e constaterete che gli Architetti fino a 45 anni rappresentano il 65% dela categoria.
Su costoro andrebbe concentrata la nostra azione di “tutela”, se dobbiamo – come io credo – guardare al futuro.»
P.: «Una domanda sorge spontanea: se gli Architetti che non superano il 45° anno di età (e che potremmo definire “giovani”) rappresentano la maggioranza schiacciante del corpo elettorale (il 65%) perché non prendono gli Ordini in mano e determinano una svolta?»
C.: «Perché non sanno che pesci pigliare. Perché non hanno compreso i rischi che corrono.
Sa dove possono portare le proposte di nuovo Ordinamento della professione? Glielo dico io: una di tali proposte di riforma delle professioni intellettuali (quella che ha come primo firmatario l’on. Mantini), all’art. 25, recita: «Il professionista che non ottempera ai doveri di aggiornamento professionale e che interrompe l’esercizio professionale per un periodo prolungato, secondo i criteri stabiliti dall’ordinamento di categoria, è radiato dall’albo.» E, addirittura, (punto b dell’art. 20) che spetta ai Consigli degli Ordini «(...) curare la tenuta e l’aggiornamento dell’albo nonché la verifica periodica della sussistenza dei requisiti per l’iscrizione, dandone comunicazione al Consiglio nazionale». Insomma, potrebbero essere i professionisti concorrenti, che siedono nei Consigli degli Ordini, a stabilire se possiamo o no mantenere l’iscrizione all’Albo e a gettare sul lastrico voi e le vostre famiglie (il che ci appare un’autentica barbarie).
Le è chiaro il pericolo? Ecco il “teorema”: tu non eserciti la professione da 5 anni ed io … ti radio dall’Albo. Architetti con una data di scadenza: 5 anni (meno della carne in scatola).
Ecco come qualcuno vorrebbe operare il “dimagrimento” di cui dicevo poc’anzi. Distruggeremmo delle generazioni di Architetti ed io questo non vorrei che accadesse.»
P.: «Vuole dare un primo consiglio ai giovani?»
C.: «Si. E’ questo: non credete a nulla; nemmeno alle cose che stanno trapelando da questa intervista. Verificate tutto! Ragionate sempre con la vostra testa e … non fermatevi mai alle apparenze, che spesso (non sempre) ingannano.»
P.: «E Lei sa cosa dovremmo fare per salvarci?»
C.: «E’ ovvio che lo so.»
P.: «E perché non ce lo dice?»
C.: «Perché non è mia abitudine aiutare, per forza, la vecchietta ad attraversare la strada. La vecchietta dovrebbe essere consenziente. Mentre, nel nostro caso, mi pare che ci stia minacciando roteando la borsetta. “Non c’è consolazione più abile del pensiero che abbiamo scelto le nostre disgrazie; una tale teologia individuale ci rivela un ordine segreto e prodigiosamente ci confonde con la divinità” (Jorge Luis Borges, Deutsches Requiem).
I giovani dovrebbero uscire dall’attuale stato di sublime inconsapevolezza e prendere in mano il loro destino.»
P.: «Caro Professore, con tutti questi numeri che mi ha spiattellato e, soprattutto, con questi scenari funesti, mi ha nuovamente stancato. Prendiamoci un’altra pausa.»
C.: «Forse è meglio così. Vediamo se giungono proposte, riguardo possibili soluzioni ai problemi che abbiamo sollevato. Vediamo se l’elettroencefalogramma presenta delle onde oppure è silente.»
P.: «Sa, Professore, che queste interviste impossibili hanno avuto un certo successo? Qualche Architetto (vivente) si è prenotato per un’intervista impossibile (post mortem).»
C.: «So tutto. Anzi, dica all’Architetto che si è prenotato che ci vuole ancora molto tempo, per realizzare – con lui – un’intervista impossibile.»
P.: «Riferirò e credo che il nostro amico sarà contento. Comunque sto accettando queste “prenotazioni”. Anzi, penserei di chiedere (oggi) un modesto compenso, per trattarli bene domani, quando sarà possibile, anche per loro, un’intervista impossibile.»
C.: «Credo, caro Perrone, che ci sarà un incremento nelle vendite di cornicelli e di altri amuleti. Io consiglierei il corno di forma fallica.
Vorrei chiederle una cortesia, caro Perrone.»
P.: «Mi dica. Sarei ben contento di esserle di aiuto.»
C.: «Come lei certamente sa, io progettai il monumento dedicato ad Aurelio Padovani, al centro di piazza Santa Maria degli Angeli. Era un bel monumento e le statue furono scolpite da Carlo de Veroli, con la collaborazione di Guglielmo Roherssen. Il monumento fu inaugurato nel 1934 e la piazza cambiò nome, prendendo quello del comandante fascista. Subito dopo la guerra – nella foga di cancellare ogni traccia del passato regime – il monumento fu smantellato e nessuno sapeva dove fosse finito. Solo un anno fa i resti del monumento sono stati ritrovati nel tunnel borbonico, sepolte sotto cumuli di macerie.
Fermo restando che non intendo cambiare la toponomastica, non si potrebbe ricomporre il monumento, riportandolo là dov’era?»
P.: «Caro Professore, mi chiede l’impossibile. A chi dovrei "girare" la sua (sensata) richiesta? Al Sindaco di Napoli? Appena De Magistris viene a sapere che Aurelio Padovani (ras di Napoli, ufficiale dei bersaglieri, eroe di guerra) faceva parte della Loggia Leonardo da Vinci N. 229, come minimo mi denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale. Chi sa più chi fu Aurelio Padovani? Chi si ricorda che Ignazio Silone disse: «Dopo Padovani, a Napoli non ci fu più politica»? Chi sa più chi fu lo stesso Ignazio Silone? Viviamo in un’epoca di profonda e genuina ignoranza. Ringraziamo Iddio che le statue del suo monumento sono state ritrovate.
Se mi chiedesse che fine hanno fatto le magnifiche colonne, in granito rosa, della vecchia stazione ferroviaria di Piazza Garibaldi, non saprei risponderle. So che una di queste colonne sorregge la statua della Madonna, al centro di Piazza Immacolata, al Vomero. Le altre me le ricordo, a terra, al Capo di Posillipo, al Parco Virgiliano. Sarei curioso di sapere dove si trovano adesso. Dovremmo chiederlo al Sindaco, ma io non ci provo neppure.
E’ meglio che il suo monumento, smembrato, resti lì dov’è e che sia opportuno … tenerlo d’occhio. Le dirò che – ridotto a pezzi e posto in quella cava di tufo, nelle viscere di Napoli – crea un ambiente molto suggestivo. Travalica l’episodio di inciviltà e rappresenta, in forma plastica, lo sfacelo di un’intera categoria. Direi di una città. Lasciamo che i bersaglieri vadano a suonare l'inno di Mameli davanti ai frammenti del monumento che Lei progettò quasi ottant'anni or sono.»
Frammento del monumento ad Aurelio Padovani, progettato da Marcello Canino (1934). Le statue furono scolpite da Carlo de Veroli, con la collaborazione di Guglielmo Roherssen. I resti del monumento sono stati ritrovati nel tunnel borbonico, sepolti sotto cumuli di macerie.