Dipendenti, pensionati e professionisti soccorrono l'università italiana
L’università italiana non attraversa (per dirla eufemisticamente) uno dei suoi periodi migliori. Con il trascorrere del tempo sempre più docenti vanno in pensione e non sono tutti ed adeguatamente rimpiazzati. Si ha sempre più difficoltà ad attivare tutti i corsi universitari che servirebbero. L’età media dei docenti universitari (ordinari, associati e ricercatori) supera i 50 anni.
L’università intende porre rimedio alla carenza di docenti stipulando contratti annuali rinnovabili. Le modalità con le quali stipulare tali contratti sono stabiliti dalla Legge 30 dicembre 2010 , n. 240 «Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario».
Che cosa prescrive questa Legge? All’art. 23 recita:
«Le università … Omissis … possono stipulare contratti della durata di un anno accademico e rinnovabili annualmente per un periodo massimo di cinque anni, a titolo gratuito o oneroso, per attività di insegnamento al fine di avvalersi della collaborazione di esperti di alta qualificazione in possesso di un significativo curriculum scientifico o professionale, che siano dipendenti da altre amministrazioni, enti o imprese, ovvero titolari di pensione, ovvero lavoratori autonomi in possesso di un reddito annuo non inferiore a 40.000 euro lordi.»
E’ certamente una decisione ammissibile coinvolgere, nell’insegnamento universitario, soggetti esterni all’università, purché posseggano determinati requisiti minimi. Quali dovrebbero essere questi requisiti minimi? A mio giudizio, i docenti a contratto dovrebbero conoscere profondamente la disciplina che intendono insegnare e sarebbe opportuno che avessero capacità didattiche. Preferibilmente dovrebbero avere un dottorato di ricerca e aver prodotto qualche pubblicazione, anche di carattere didattico o divulgativo.
La suddetta Legge 40/10 richiede che i beneficiari dei contratti siano «esperti di alta qualificazione in possesso di un significativo curriculum scientifico o professionale». Ma non basta. Sono richieste – condicio sine qua non – le altre caratteristiche enunciate dall’art.23 della Legge, sulle quali torneremo nel seguito.
Intanto farei notare che non è richiesto un «curriculum scientifico e professionale», bensì un «curriculum scientifico o professionale». In altre parole va bene un soggetto con un significativo curriculum professionale, ma non scientifico (o, viceversa, scientifico ma non professionale). Non mi scandalizzo. C’è qualcosa di vero nel detto «chi sa fare fa, chi non sa fare insegna». Ci può essere chi, innamorato del proprio mestiere, si è buttato in esso a capofitto, collezionando risultati e soddisfazioni una dietro l’altra. Costui avrà approfondito le proprie conoscenze, preferendo operare piuttosto che produrre pubblicazioni o tenere conferenze. Un soggetto con queste caratteristiche – a mio giudizio – può avere un contratto di insegnamento universitario annuale e rinnovabile. Non escluderei che, avviata questa nuova esperienza, costui possa fare il salto di qualità e produrre importanti contributi originali alla materia insegnata e “spostarsi” un po’ dal campo della professione a quello della ricerca oppure restare un eccellente professionista, che trasmetti ai giovani le sue conoscenze.
Ci sarebbe, pertanto, un punto fermo da stabilire: l’università ha il compito di formare i professionisti di domani e, quindi, non può delegare tale compito al tirocinio (esperienza senz’altro utile) come sembrerebbe voler fare il D.P.R. 13 agosto 2011, n. 138 (di cui ci occupiamo in altra parte del sito).
C’è una certa schizofrenia nelle ultime leggi: secondo l’appena richiamato D.P.R. 13 agosto 2011, n. 138, il professionista dovrà corrispondere al tirocinante un equo compenso per formarlo, mentre, secondo la Legge 30 dicembre 2010, n. 240, lo stesso professionista può essere retribuito, qualora svolga la sua attività formativa nell’ambito dell’università (a seguito della stipulazione di un contratto annuale, rinnovabile per non più di 5 anni). Lo stesso professionista potrebbe trovarsi la mattina a insegnare all'università percependo un compenso e il pomeriggio a operare nel suo studio, riconoscendo un compenso ai tirocinanti, che potrebbero essere (o essere stati) i suoi allievi all'università.
E’ ovvio che la questione del praticantato – la quale, a mio giudizio, altro non è che attrezzarsi per l’impatto con la realtà – non dovrebbe valere per le facoltà di Medicina, dove esistono i Policlinici universitari, nei quali si insegna la pratica medica alle nuove leve. Mi sembra evidente che, nei Policlinici, si segue un percorso formativo che – credo – non può prescindere dal “contatto” con il caso clinico concreto, seguendo un giusto mixer tra teoria e pratica. E’ vero che il nuovo esame di abilitazione alla professione di Medico prevede un tirocinio pratico di tre mesi e una prova scritta e che il tirocinio si può svolgere non soltanto nei reparti di medicina e di chirurgia, come accadeva finora, ma anche presso lo studio di un medico di famiglia. Io sarò un po’ all’antica e credo che fosse preferibile, per i Medici, il tirocinio pratico presso i Policlinici universitari (che sono università e dovrebbero sempre mettere al primo posto la formazione degli allievi).
Gli architetti, gli ingegneri, gli avvocati non hanno i “policlinici” e, quindi, hanno bisogno di qualcosa che li traghetti dalla teoria alla pratica. E non vedo niente di sconveniente se l’università – stipulando contratti con professionisti esterni – badasse a una migliore formazione professionale dei giovani. Non credo, in altri termini, che ciò possa essere considerato una “contaminazione” dell’università, specie di questi tempi.
A chi intende assegnare i corsi annuali la suddetta Legge 40/10? Abbiamo visto che intende stipulare contratti con «dipendenti da altre amministrazioni, enti o imprese, ovvero titolari di pensione, ovvero lavoratori autonomi in possesso di un reddito annuo non inferiore a 40.000 euro lordi». In altre parole avranno la possibilità di ottenere un contratto: i dipendenti, i pensionati e i liberi professionisti con un reddito che, almeno, garantisca almeno un minimo di sopravvivenza (la qual cosa ci dovrebbe assicurare che o sono bravi o sono intrallazzatori).
Particolarmente “curiosa” è la richiesta di un reddito annuo non inferiore a 40.000 euro lordi. Sarebbe sbagliato svolgere un’attività professionale sfrenata e venire all’università per riposarsi. E’, invece, opportuna (io direi “obbligatoria”) un’attività professionale selettiva e moderata, finalizzata a portare nell’insegnamento l’esperienza maturata sul campo. L’argomento è complesso, tocca la questione del «tempo pieno» ed è preferibile affrontarlo in altra sede.
L’università ha bisogno di svecchiarsi, di aprirsi ai giovani. L’idea di favorire i dipendenti (che dovrebbero avere il dono della bilocazione per fare bene i dipendenti e i docenti universitari), i pensionati (che andrebbero a elevare ulteriormente la già elevata età media dei docenti universitari italiani), i professionisti con «reddito annuo non inferiore a 40.000 euro lordi» è pura follia.
In Francia, i posti da maître de conférence, (l'equivalente del nostro ricercatore ma con un primo stipendio da 1500 euro mensili), sono abitualmente assegnati a giovani sotto i 30 anni. In tutta Europa l’università si svecchia. In Italia arruoliamo i pensionati.
Robert Hooke (1635 - 1702) fu un genio poliedrico e, per giunta, non privo di senso artistico (nel campo grafico e, sembrerebbe, anche musicale). Al più vasto pubblico, forse, Hooke è noto per la sua opera «Micrographia» (1665), nella quale riporta le osservazioni naturalistiche condotte con un microscopio da lui realizzato. Hooke fu il primo a usare il termine "cellula". Fu valente architetto e assistente di Wren nel progetto di ricostruzione della città di Londra dopo il grande incendio del 1666. Divenne amico di Christopher Wren, realizzò un piano urbanistico per la città di Londra.
Hooke ebbe lunghi periodi d'eccezionale estro scientifico e, seppure tardivamente, riconoscimenti morali ed economici (nonostante gli attacchi subiti, ad opera di Newton). Nel 1677, con la morte di Henry Oldenburg, Hooke diviene Segretario della Royal Society. Ma si dimise cinque anni dopo (a 38 anni) da tale carica, non appena si rese conto di aver esaurito la sua creatività scientifica. Tutto ciò per dire che è una “barzelletta” iniziare una carriera scientifica a 40 anni (quando Hooke la chiuse a 38).
Una carriera scientifica va iniziata da “lattanti”. Kelvin (1824 -1907) a soli 10 anni d'età s’iscrive all'Università di Glasgow (dove papà era professore) e, poi, a 17 anni, passa a frequentare la prestigiosa Università di Cambridge. A trent’anni, Kelvin non solo già si era laureato e aveva fatto un'importante esperienza in Francia (dove si trovavano i laboratori più importanti dell'epoca), ma aveva prodotto almeno tre importanti pubblicazioni: quella in cui introduce l'idea di una scala assoluta delle temperature (1848), quella in cui espone la legge di conservazione dell'energia (1852) e quella sulle onde, che segnerà una tappa importante nello sviluppo della radio.
Isaac Barrow insegnava al Trinity College di Cambridge e non era uno stupido, bensì un ottimo professore di matematica. Tra i suoi allievi ce ne era uno – ventiquattrenne – molto brillante che gli mostrò alcuni suoi studi: tra gli altri, la legge di gravitazione universale. Il professor Barrow si alzò dalla cattedra e la cedette al ventiquattrenne. Fu così che il giovane Isaac Newton iniziò la sua carriera universitaria a Cambridge. Tutto ciò accadeva nel 1677 in Inghilterra. Oggi, in Italia, Barrow resterebbe in cattedra anche dopo il pensionamento (se non dopo morto, previo adeguato trattamento di imbalsamazione) oppure sarebbe rimpiazzato da un dipendente dell’acquedotto. E Newton andrebbe all’estero.
Venendo a tempi più recenti, Enrico Fermi occupò la cattedra di Fisica Teorica nel 1926, a 25 anni. Intorno a lui si formò il famoso gruppo dei «Ragazzi di via Panisperna», che collaborarono con lui – nel 1934 – a scoprire le proprietà dei neutroni lenti. Chi erano questi «Ragazzi di via Panisperna» e quanti anni avevano nel 1934? Erano: Edoardo Amaldi (26 anni), Franco Rasetti (33 anni), Emilio Segrè (29 anni), Bruno Pontecorvo (21 anni), Oscar D’Agostino (33 anni). Fermi (che coordinava il gruppo) era il più vecchio, con 34 anni e nel 1938 riceve il premio Nobel per la Fisica, alla veneranda età di 37 anni.
Ovviamente, sto portando esempi limite, per sforzarmi di far capire che all’età media di nomina dei ricercatori italiani (intorno ai quarant’anni se non di più) le carriere scientifiche si chiudono, quasi mai si aprono.
Non vi è dubbio che la ricerca non è, in genere, affare per pensionati (o per dipendenti in cerca di una seconda occupazione o di liberi professionisti che puntino a intascare almeno 40.000 euro l’anno, per campare con qualche modesta agiatezza). Occorrerebbero, piuttosto, incentivazioni del pensionamento volontario anticipato. In Italia continuerà la fuga dei cervelli e l’università rischia di diventare un gerontocomio.
Mettiamo in chiaro una cosa: il mio non è un discorso alla Cicero pro domo sua. Supero il secolo sommando anzianità contributiva a quella anagrafica. Posso ancora svolgere un ruolo utile, ma un giovane brillante dovrebbe rimpiazzarmi al più presto possibile.
L’università italiana – che corre rapidamente verso il baratro – lasciasse stare i dipendenti di altre amministrazioni, i pensionati, i liberi professionisti più o meno di successo (che pure potrebbero saltuariamente e moderatamente collaborare con l’università, più per il loro aggiornamento professionale che non per quello degli altri).
Vi è una sola strada per salvarsi: bandire concorsi per assumere – più oggi che domani – 20.000 nuovi (e giovani) ricercatori. Sarebbe la salvezza. In alternativa, le università italiane andranno ancora più giù nella classifica mondiale. Tale classifica non è fatta secondo criteri cervellotici, ma in base a criteri “seri”, fra cui le pubblicazioni su riviste scientifiche e Nobel attribuiti a ex allievi e personale corrente. La classifica inizia con 5 università americane (Harvard, Berkeley, Stafford, MIT), poi c’è Cambridge. La prima università dell’Europa continentale è la Scuola Politecnica Federale di Zurigo (23° posto). Segue (39° posto) l’università di Parigi VI e l’università tecnica di Monaco (52° posto). Per trovare l’Italia occorre scendere al 183° posto, dove troviamo l’Alma Mater di Bologna. Solo dopo il 400° posto rinveniamo Trento, Trieste, Roma Tor Vergata, Federico II di Napoli, Politecnico di Torino.
Quando Galileo Galilei fu professore a Padova dal 1592 al 1618, venivano a piedi da tutta Europa per ascoltare le sue lezioni. Se avessero prodotto – all’epoca – una classifica mondiale delle università, avremmo trovato Padova al primo posto. Galileo, nel 1592, aveva esattamente 28 anni.
Non porre rimedio al progressivo invecchiamento della docenza universitaria, comporta un affievolimento della spinta innovativa del Paese e della ricerca scientifica. Tale processo di “stagionatura” (insieme ai fenomeni diffusi di familismo) va fortemente a incidere sulla psicologia e sulle motivazioni dei giovani. Per non dire delle forti implicazioni di natura sociologica ed economica.
Vogliamo risollevare le sorti dell’università italiana con i dipendenti delle municipalizzate, i pensionati (che mi ricordano Totò nei panni del generale Cavalli) e i liberi professionisti con un reddito lordo che sia almeno pari al minimo che garantisca la sopravvivenza? Lo trovo semplicemente ridicolo, come ritengo sia una boutade il titolo della Legge 30 dicembre 2010 , n. 240 che parla di « … incentivare la qualità e l'efficienza del sistema universitario».
Si riducano i costi della politica e si bandiscano, al più presto, concorsi per far entrare, nell'università italiana, almeno 20.000 giovani ricercatori. Non vedo altra strada per far risorgere l'università italiana.
Secondo i dati del Sole 24Ore, la politica in Italia costa oltre 23 miliardi di euro all’anno. La retribuzione lorda di un ricercatore di prima nomina è pari a circa 30000 euro annui, che ammontano a 0,6 miliardi di euro all’anno, per assumere 20.000 ricercatori. Abbassando i costi della politica da 23 a 22,4 miliardi di euro all’anno, avremmo risolto i problemi dell’università italiana.
E’ ovvio che io non mi fermerei qui e, dimezzando i costi della politica, risolverei altri problemi (le scuole che cadono a pezzi, un sostegno alle famiglie, l’incremento delle pensioni minime, combattere la disoccupazione, ecc.). Ho aperto il libro dei sogni? Basterebbe dimezzare il costo delle missioni all’estero (più di 1 miliardo di euro nel 2007) per procedere al reclutamento di 20.000 ricercatori. Oppure rivedere l’otto per mille, cresciuto da 0,398 miliardi di euro del 1990 a 1 miliardo del 2008. Grattando un po’ di soldi dai costi della politica, dalle missioni militari all’estero e quasi nulla dall’otto per mille rilanceremmo non solo l’università, ma tutta la scuola italiana.
Raffaello - La scuola di Atene