L'Antitrust risponde

In un contributo dell’arch. Antonio Sassone (riportato nella sezione “riforma delle professioni”) si auspicava un intervento dell’Antitrust in merito al D.P.R. 13 agosto 2011, n. 138. Questo intervento c’è stato e Antonio Catricalà (Presidente dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) ha espresso delle osservazioni sul D.P.R. 13 agosto 2011, n. 138, evidentemente affinché se ne tenga conto in provvedimenti legislativi futuri, riguardanti la riforma delle professioni.

Giustamente, Catricalà chiede che sia espunto ogni riferimento alle tariffe professionali. Se il compenso di un professionista deve essere – preventivamente all'espletamento della prestazione professionale e per iscritto – liberamente pattuito tra le parti, a cosa serve tenere come riferimento la tariffa professionale? Infatti, il D.P.R. 13 agosto 2011, n. 138 è chiaro e sancisce che «E' ammessa la pattuizione dei compensi anche in deroga alle tariffe.» Quindi, la tariffa a cosa serve? Potrebbe servire allorché un professionista non sa quale compenso chiedere e inizia la sua “trattativa” con il cliente partendo dalla parcella suggerita dalla tariffa (che non è più un minimo inderogabile).

Cosa dice Catricalà sul punto? Dice:

«Le disposizioni del decreto in materia di tariffe professionali presentano tuttavia alcune criticità concorrenziali e costituiscono un passo indietro rispetto alla disciplina dettata dal decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, che aveva abrogato l’obbligatorietà delle tariffe fisse o minime. La nuova disciplina individua le tariffe professionali come parametro legale di riferimento per la determinazione del compenso (che deve essere pattuito per iscritto all’atto del conferimento dell’incarico professionale), pur chiarendo che è ammessa la pattuizione dei compensi anche in deroga alle tariffe.»

E aggiunge: «La disciplina, così riassunta, pur potendosi trovare una giustificazione per la tariffa massima nella tutela del consumatore, risulta tuttavia idonea a disincentivare fortemente la determinazione di compensi per l’attività professionale svincolati dalle tariffe e non sembra né necessaria, né proporzionata, ma piuttosto contraddittoria e contraria all’obiettivo che intende perseguire, vale a dire la liberalizzazione del mercato dei servizi professionali. Si ricorda infatti che, secondo consolidati principi antitrust, i tariffari, anche non obbligatori, possono determinare effetti negativi per la concorrenza alla stessa stregua dei prezzi obbligatori. Ciò in quanto la mera esistenza di prezzi cui far riferimento si presta, da un lato, a facilitare il coordinamento dei prezzi tra i prestatori dei servizi e, dall’altro, ad informare non compiutamente i consumatori in merito alla misura dei livelli ragionevoli dei prezzi. Le tariffe professionali, laddove assumano la qualifica di parametro di riferimento, costituiscono dunque una grave restrizione della concorrenza nel settore dei servizi professionali in quanto incentivano gli iscritti agli albi a non adottare comportamenti economici indipendenti e ad utilizzare il più importante strumento concorrenziale, ossia il prezzo della prestazione.»

Inoltre, Catricalà giudica eccessiva la durata del tirocinio, fissato dal il D.P.R. 13 agosto 2011, n. 138 in tre anni. Infatti Catricalà dice:

«La durata massima del tirocinio, fissata in tre anni, appare eccessiva, anche alla luce della prassi instaurata da alcuni Ordini, che hanno previsto periodi di apprendistato di due anni.»

Sono d’accordo con l’Antitrust. Effettivamente, i giovani non possono essere “stagionati” troppo, prima di immetterli nel mondo del lavoro. Parlo degli architetti. Secondo una rilevazione del CENSIS di alcuni anni fa, a fronte dei cinque anni previsti, l'architetto si laurea, mediamente, in otto anni e dieci mesi (con un ritardo pari al 75% della durata dello stesso corso di laurea quinquennale), presentando un'età media di 28 anni. L'ingegnere si laurea, sempre secondo i dati CENSIS, in sette anni e sette mesi (il ritardo, in questo caso, è di circa la metà della durata prevista per il corso di laurea, sempre quinquennale). Il medico impiega, all'incirca, i sei anni previsti dalla Facoltà di Medicina. Come se ciò non bastasse, mentre l'ingegnere trovava lavoro — sempre secondo l'indagine CENSIS di una decina di anni fa — dopo sei mesi dalla laurea, l'architetto ci riusciva, mediamente, dopo due anni. In conclusione, l'architetto trovava uno sbocco occupazionale a 28+2 = 30 anni. Sembrerebbe, allora, che uno dei principali obiettivi delle Facoltà di Architettura sia la "stagionatura" degli allievi; e meno male che gli architetti sono longevi! Dalla suddetta indagine del CENSIS sono trascorsi anni e la situazione è molto peggiorata. Ne consegue che Catricalà ha perfettamente ragione: la durata massima del tirocinio deve essere drasticamente ridotta.

In altra parte del sito ci siamo sforzati di far capire che esistono falle nel sistema universitario italiano (che si affida ai dipendenti, ai pensionati e ai professionisti con un reddito lordo non inferiore a 40.000 euro annui, per attivare alcuni corsi universitari) e – mi pare – Catricalà mette il dito nella piaga (seppure con garbo, scegliendo quello più piccolo della mano e, forse, con una goccia di anestetico) allorché afferma:

«Una effettiva accelerazione della possibilità per i giovani di accedere al mondo della professione dovrebbe in ogni caso andare più in profondità, coinvolgendo una riforma del sistema degli studi: la possibilità per gli aspiranti professionisti di svolgere l’intero tirocinio durante gli anni universitari, e addirittura di conseguire lauree che, in combinazione con l’esame di Stato oggi previsto dall’art. 33, comma 5, della Costituzione, abilitino all’esercizio della professione, costituirebbe un cambiamento sicuramente più efficace in vista dell’obiettivo perseguito.»

Insomma, si reclama una università più efficiente (che – come andiamo predicando in questo sito – formi effettivamente i professionisti di domani) e la laurea abilitante. Si può non essere d’accordo? L’esame di Stato è una barzelletta ed è diventata, da anni, l’iniziazione alle fregature della vita. Catricalà ha ragione anche su questo punto.

Sulla necessità della formazione continua non ci dovrebbero essere più dubbi. Si tratta di quella «formazione permanente», della cui importanza ci siamo lentamente convinti. Nel mondo anglosassone lo si è capito da tempo: è il cosiddetto «life long learning», l'approfondimento lungo tutta quanta la vita, della conoscenza di un mestiere o di una disciplina scientifica (che consente di combattere efficacemente l'analfabetismo di ritorno e giungere alla vecchia in perfetta lucidità di mente). L'Università dovrebbe, allora, fornire una fortissima formazione di base, in grado di consentire quanto appena detto.

Cosa dice Catricalà sulla formazione continua? Ecco cosa afferma:

«Quanto alla previsione dell’obbligo per il professionista di seguire percorsi di formazione continua permanente, essa è indubbiamente da apprezzare. Tuttavia, si evidenzia l’opportunità che l’attribuzione agli Ordini della predisposizione dei percorsi di aggiornamento, formazione e specializzazione dei professionisti non si traduca nella possibilità per essi di riservare a se stessi la gestione degli eventi formativi ovvero nell’attribuzione di vantaggi concorrenziali rispetto ad altri organizzatori di eventi formativi.»

Mi pare che non vi sia bisogno di commenti e che si possa concordare con Catricalà anche su questo punto.

Infine voglio affrontare la questione della deontologia. Il D.P.R.138/11 dice: «gli ordinamenti professionali dovranno prevedere l'istituzione di organi a livello territoriale, diversi da quelli aventi funzioni amministrative, ai quali sono specificamente affidate l'istruzione e la decisione delle questioni disciplinari e di un organo nazionale di disciplina. La carica di consigliere dell'Ordine territoriale o di consigliere nazionale è incompatibile con quella di membro dei consigli di disciplina nazionali e territoriali. Le disposizioni della presente lettera non si applicano alle professioni sanitarie per le quali resta confermata la normativa vigente;»

In soldoni, i Consigli degli Ordini non potranno più occuparsi di deontologia, delegata a “consigli di disciplina”. Da chi saranno formati questi “consigli di disciplina”? Esclusivamente da colleghi oppure ci saranno dei membri “laici”? Apparirebbe più giusto che tali “consigli di disciplina” siano presieduti da un Magistrato (o da un ex Magistrato) e composti non solo da colleghi dell’incolpato, ma anche da rappresentanti dei consumatori. Ovviamente, “equilibrando” bene il tutto. Ci pare che Catricalà sia sulla stessa lunghezza d’onda, quando afferma:

«Con riguardo infine all’istituzione dei consigli di disciplina, le cui funzioni dovranno essere tenute distinte da quelle di natura tipicamente amministrativa degli Ordini, si sottolinea che, secondo quanto emerge dal decreto, in assenza di indicazione contraria, tali organi dovrebbero essere composti esclusivamente da professionisti appartenenti all’ordine.
Tale circostanza sembra depotenziare di molto il carattere innovativo del nuovo organo disciplinare, che continuerebbe a difettare dei requisiti di necessaria terzietà. Per tale ragione, appare opportuno integrare la composizione dei consigli di disciplina, come avviene in altri Paesi, mediante la partecipazione di soggetti esterni.»

Per brevità, chiudo notando che Sassone ha chiamato e Catricalà ha risposto. Il Parlamento cosa farà? Apporterà dei correttivi al D.P.R. 138/11?

Una cosa mi impressiona: il silenzio assordante dei diretti interessati in questa fase delicatissima, in cui si decide il loro destino. Si racconta che quando Costantinopoli stava per essere espugnata dai turchi, i teologi bizantini seguitassero a disputare del sesso degli angeli, indifferenti della fine incombente.

                        Pieter Aertsen - Scena di mercato.

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