Dove va il Paese?

 

Gli ultimi dati ISTAT ci dicono che in Italia vivono circa 59,5 milioni di persone, di cui 3,8 milioni d’immigrati.

Permane la staticità demografica dei cittadini italiani e l’incremento di popolazione (da 10 anni a questa parte) è avvenuto soprattutto grazie agli immigrati.

Diminuiscono i matrimoni. Erano poco meno di 250.000 all’anno nel 2004 e sono scesi a poco più di 230.000 nel 2009. Se diminuiscono i matrimoni, in compenso aumentano le separazioni e i divorzi: il numero di separazioni è aumentato dal 2000 del 19,4% e quello dei divorzi di circa il 45%.

Le coppie continuano a scoppiare. Nel 2009, a fronte di circa 231.000 matrimoni, si sono registrati 140.401 tra separazioni e divorzi (rappresentano il 60 % dei matrimoni). Parliamo, ovviamente, delle unioni legalizzate (e aumentano i matrimoni civili). Cresce, quindi, l’instabilità coniugale. Ovviamente le femminucce incolpano i maschietti e … viceversa.

Per quanto attiene la fecondità andiamo davvero male. Mediamente, le donne fanno figli a 31,3 anni di età e, adesso, ogni donna fa 1,41 figli a testa (per fare 5 figli occorrono 7 donne). La cosiddetta «soglia di rimpiazzo» (che serve a mantenere costante la popolazione) è pari a circa 2,1 figli in media per donna. Ne consegue che continuiamo a calare, come popolazione di origine italiana, seppure lentamente.

Per quanto attiene i permessi a costruire, siamo il fanalino di coda in Europa: occupiamo il 17° posto, dietro quasi tutti (e avanti a pochi paesi, tra i quali Grecia, Irlanda e Spagna). In Italia non si costruisce più (tranne centri commerciali e quant’altro interessa la camorra).

L’ISTAT misura anche la povertà, ma cerca di indorare la pillola parlando di «deprivazione», di «esclusione sociale», di «disagio economico». La regione più povera è la Sicilia, seguita a ruota dalla Campania e dalla Calabria. Che cosa significa il dato campano? Che 29,5 famiglie su 100 hanno superato la soglia di povertà. In soldoni, una famiglia campana su tre tira la cinghia fino all’ultimo foro (il cosiddetto «foro italico»).

Continua a calare l'occupazione dei giovani tra i 18 e i 29 anni. Grazie a politiche dissennate e a quanti altri dissipano denaro pubblico per scassare, anziché costruire.

L’incremento del numero di case è stato più forte di quello della popolazione. In linea teorica, il numero dei vani, in Italia, sarebbe sufficiente. Però l'ISTAT ha rilevato la presenza di 2.708.087 abitazioni non occupate o occupate da famiglie non registrate all'anagrafe. Conclusione: sono più che triplicate le famiglie che vivono in alloggi di fortuna. Segno evidente d’inciviltà e d’insensatezza allo stato puro.

In 10 anni, sono state costruite (o, in misura ridotta, recuperate) 571.611 abitazioni. Ma nel 2011, nonostante si contassero quasi 29 milioni di abitazioni, è in crescita esponenziale – come dicevo poc’anzi – il numero delle famiglie che dichiarano di abitare in baracche, roulotte, tende o abitazioni simili. Queste famiglie – oggi – sono 71.101, mentre erano 23.336 del 2001.

Si sa che la Statistica è strana: se, per un gruppo sociale formato da 4 persone, uno mangia 2 polli e gli altri 3 osservano un digiuno assoluto, risulta che hanno mangiato mezzo pollo a testa (e che nessuno dei quattro è legittimato a lamentarsi).

Conclusione: se esistesse solo un briciolo di intelligenza e di buon senso occorrerebbe mettere mano subito a un poderoso programma di edilizia residenziale pubblica, per realizzare – in un paio d’anni – almeno 450.000 nuove case popolari in Italia.

I vantaggi sarebbero enormi. Innanzitutto quello dell’edilizia è un settore trainante, che si tira dietro una sessantina di settori produttivi. Poi si darebbe ossigeno a un settore in crisi e si risponderebbe a una domanda sociale riconosciuta e pressante, lavorerebbero gli architetti (che, in pratica, difendo solo io in Italia, con risultati comprensibilmente nulli perché ci dovrebbero essere almeno altri due «fessi» a spalleggiarmi). C’è di più: rispetteremmo il dettato della nostra Costituzione, la quale – all’art. 47 – afferma che la Repubblica «Favorisce l'accesso del risparmio popolare alla proprietà dell'abitazione …».

Potrei terminare qui, ma sono costretto a prevenire assai prevedibili critiche.

E’ ovvio che occorra non cementificare il territorio. Sono anni che vado sostenendo che i problemi legati alle demolizioni, agli adeguamenti e alle riabilitazioni strutturali di opere in c.a. meriterebbero un certo approfondimento, perché il futuro dell'edilizia sarà - o dovrebbe essere - orientato non tanto all'edificazione di nuove costruzioni quanto al recupero dell'esistente. Se è vero che le nostre città sono caratterizzate da una periferia squallida e degradata (che, nel caso di Napoli, è stata giustamente definita «una corona di spine»), sorta nell'immediato dopoguerra con una ricostruzione frenetica e incontrollata e cresciuta con l'abusivismo edilizio dei giorni nostri, molto occorrerebbe fare sull'esistente (riqualificazioni estetico-funzionali, adeguamenti sismici, demolizioni e ricostruzioni, ecc.).

Non vi è dubbio, allora, che una parte degli alloggi di edilizia residenziale pubblica dovrebbe essere costituita da nuove costruzioni e una parte dal recupero (anche tramite demolizioni e ricostruzioni) dell’esistente.

E' bene ripetere che non vi è alcun dubbio che - al fine di non consumare altro suolo "libero", a volte fertilissimo - occorrerebbe limitare al massimo le nuove edificazioni (su suoli "liberi") e puntare sul recupero del patrimonio edilizio esistente, una larga parte del quale - essendo costruito senza regole sismiche e privo di qualità architettonica - potrebbe essere demolito e ricostruito (puntando - è ovvio - anche al risparmio energetico).

 

Per i dettagli vedi http://www.vincenzoperrone.it/content/il-crollo-di-barletta  

                        
                           

 

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