Il lungomare di Napoli.

Quanti volessero saperne di più sul lungomare di Napoli hanno un ottimo riferimento bibliografico: Giancarlo Alisio, «Il lungomare», Electa Napoli, 1989.

Non è mia intenzione riassumere il libro, anche perché finirei per scriverne uno doppio, a causa della mia deformazione “didattica”, consistente nel ripetere le stesse cose con parole diverse, al fine di renderle (con risultati assai scadenti) assolutamente chiare e condivisibile. E’ una fatica di Sisifo, giacché alcuni interlocutori mostrano di non voler dar peso a questioni assai importanti, bellamente ignorate. Come «quello che conviene … avviene», si può anche dire «ciò che non conviene sapere … è bene fingere di ignorarlo». Molti problemi, effettivamente, possono essere (apparentemente) risolti ignorandoli.

Chiunque volesse mettere mano su via Caracciolo dovrebbe – a mio giudizio – superare un esame, che potrebbe essere preparato studiando un solo testo, piuttosto “snello” e di piacevole lettura: il libro, appunto, di Giancarlo Alisio poc’anzi citato.

Io mi limiterò a qualche flash, giusto per appagare il mio Ego, ritrovando – nella storia del lungomare di Napoli – quanto da me sostenuto, in epoche remote e in altre circostanze.

Uscirò, deliberatamente, fuori tema, per evidenziare l’importanza della cosiddetta «partecipazione» alla vita delle Istituzioni (e del Comune di Napoli in particolare), nonché l’importanza di avere un Consiglio Comunale in cui si affrontano problemi concreti e si cercano le soluzioni più valide ai problemi della città. Il libro di Alisio mostra anche questo.

Mi sposto, adesso, in una zona più lontana dal lungomare e più vicinia al Palazzo Comunale. La costruzione della Galleria Umberto I, a Napoli, è da inquadrarsi nei provvedimenti adottati per fronteggiare «il colera dell’84» (ovviamente del 1884, che ha lasciato un indelebile quanto drammatico ricordo in varie generazioni di napoletani). Il complesso della Galleria sorge laddove esisteva — come si osserva nei fogli 11 e 18 della tavola del Duca di Noja — un dedalo di vicoli, nel quale si registrava una densità edilizia da capogiro. Eravamo negli anni in cui i professionisti napoletani proponevano, con continuità, i loro progetti all’amministrazione comunale, con qualche chance d’accoglimento. Tra i progetti presentati per la sistemazione della zona in parola, fu prescelto quello di Emanuele Rocco (il cui busto è oggi visibile nella Galleria, nei pressi dell’ingresso da Via S. Brigida, insieme a quello di Antonio Curri, “architetto pugliese”, al quale si devono le decorazioni). L’opera venne inaugurata il 10 novembre 1892 dal sindaco Nicola Amore (il miglior sindaco che Napoli abbia mai avuto, come Ernesto Nathan lo è stato per Roma). La struttura in ferro, a composizione chiodata, della Galleria (quattro volte a botte in ferro e vetro e un’ampia cupola, a copertura della crociera centrale ottagonale) è opera di Francesco Paolo Boubée, autore, tra l’altro, di un memorabile «Trattato elementare teorico-pratico di costruzioni metalliche» (edito a Napoli nel 1880) e docente di progettazione strutturale per le costruzioni metalliche e in legno.

Si sta iniziando a comprendere che gli Architetti – una volta – erano artefici delle trasformazioni urbane e non semplici e passivi spettatori delle esibizioni delle «archistar»?

Alisio ci conferma quest’attiva partecipazione – degli Architetti – al ridisegno urbano. A pag. 54 del suo libro, Alisio scrive:
«Anche Errico Alvino – a titolo personale, come allora era costume professionale, cioè senza uno specifico incarico affidatogli dalle autorità comunali, e in qualità di architetto commissario per i quartieri Chiaia e S. Ferdinando – aveva affrontato l’argomento giungendo ad elaborare, nel 1861, nell’ambito di un piano regolatore per la città, un interessante ed organico progetto che prevedeva l’ampliamento della Salita del Gigante (l’odierna via Cesario Console), di via Santa Lucia, del Chiatamone e del lungomare sino a Mergellina».

Insomma, gli Architetti - immagino - si recavano spesso a Palazzo San Giacomo, con rotoli di disegno sottobraccio, esponevano idee, si innescavano dibattiti e … si realizzava qualcosa, spesso qualcosa di valido.

C’era – com’è ovvio – chi riusciva a far “passare” il suo progetto e chi (come Lamont Young) vedeva i suoi progetti restare - quasi tutti - sulla carta (anche se a Lamont Young non mancarono apprezzamenti e incoraggiamenti).

Immaginiamo – sognando – cosa sarebbe accaduto se, nell’ambiente di allora, ci fossero stati i moderni strumenti della tecnologia: avremmo trovato, su Internet, progetti, rendering, relazioni, dibattiti interessanti. Invece … io non so nemmeno come sia composta l’attuale Commissione Edilizia Integrata del Comune di Napoli.

Napoli – detta en passant -  era anche frequentata da stranieri, che apportavano ricchezza alla città. Si può fare il calzante esempio del naturalista e zoologo tedesco Anton Dohrn, nato a Stettino nel 1840 e laureato a Berlino in Scienze Naturali, che si trasferì a Napoli a studiare la flora e la fauna del golfo. E' del 1872 l'acquario, posto sul lungomare di Napoli.

Un’altra questione che voglio affrontare è quella delle scogliere su via Caracciolo. Dal libro di Alisio si apprende che nel 1869 è stipulato il contratto per la sistemazione del lungomare, accettando l’offerta di Annibale Giletta, spezzata in due tranches: da Santa Lucia a Piazza Vittoria e da quest’ultima a Mergellina. Ad Giletta subentrò – sin dall’inizio dell’appalto – come concessionario il barone belga Ermanno Du Mesnil, rappresentato dal fratello Oscar.

Il primo tratto (quello da Santa Lucia a Piazza Vittoria) è praticamente terminato nel 1872. Il 4 dicembre di quell’anno si ebbe una violenta tempesta che arrecò dei danni non gravissimi (se Du Mesnil potette ripararli con non più di trentacinquemila lire) alle opere appena realizzate. L’Ingegnere Gaetano Bruno esaminò i danni e se ne tenne conto nel prosieguo dell’opera prevedendo – per il muro «di ripa» o di «sottoscarpa», che dir si voglia – un rivestimento esterno «in pietrarsa con pietre ben connesse e fronte a profilo concavo, secondo lo schema proposto dallo Emy, che offriva maggiore resistenza alle onde».

Il secondo tratto (da Piazza Vittoria a Mergellina) è realizzato dal 1872 al 1879. Si impiegarono 6 anni perché si lavorò nei soli periodi estivi. Quindi – detto per inciso – il muro tutto è fuorché “borbonico”. Alisio (pag. 60) ci dà contezza degli ottimi materiali impiegati nella costruzione: « … i calcestruzzi erano costituiti da calce della costa di Equa, pozzolana idraulica del Vesuvio e di Pozzuoli, pietrisco di scorie vulcaniche». Tant’è che il muro – nonostante non abbia ricevuto alcuna attenzione, ma solo poche riparazioni – è ancora lì, a resistere alle ingiurie del tempo, in un ambiente tutt’altro che facile. Vi è tutta una sapienza costruttiva, praticamente ignorata ai giorni nostri. La «pozzolana» (pulvis puteolanus) è un prodotto naturale di origine vulcanica, col quale gli antichi realizzavano malte idrauliche. Tale materiale è presente in abbondanza nei Campi Flegrei (zona di Pozzuoli, l'antica Puteoli, da cui esso prende il nome). Vitruvio dice: «C'è un genere di polvere che fa per sua natura cose ammirevoli. Nasce nella zona di Baia, nei municipi alle falde del Vesuvio. E' una polvere che mescolata a calce e sassi, non solo conferisce solidità agli edifici comuni, ma permette anche alle strutture gettate in mare di far presa sott'acqua». Si può pensare che sia un caso se le opere dei Romani siano giunte ai nostri giorni?

Quella del 4 dicembre del 1872 è stata l’ultima violenta mareggiata avutasi a Napoli? Evidentemente no. La mareggiata del 1872 fu davvero eccezionale (se distrusse, a Pozzuoli, la Chiesa della Purificazione, detta «Assunta a Mare») e altre mareggiate eccezionali – dal 1872 a quella degli anni ’80 del secolo scorso – ci sono state. Senza dubbio, altre ci saranno. Finché c'è il mare ci saranno ... le mareggiate (noi, sovente, scopriamo l'acqua calda).

A causa delle mareggiate, poco dopo il completamento del lungomare, si inizia ad apporre scogliere, che, inizialmente, erano assai poco ingombranti e, soprattutto, formate da pietra vulcanica, compatibile con l’ambiente marino e con l’estetica. Cosa dice Alisio? Col bon ton che lo caratterizzava, prende atto che « … si resero necessarie le scogliere frangiflutto che, attualmente, hanno raggiunto dimensioni tali da alterare, non poco, la bellezza del lungomare». Alisio, evidentemente, volle conservare la sua signorilità e mostrare distacco, evitando di dire che l’esagerato incremento di scogliere (tra l’altro formate da massi calcarei) operato nel 1987 dal Provveditorato alle Opere Pubbliche, ha rappresentato un autentico scempio e Lui dice che si è ottenuto il risultato di «alterare, non poco, la bellezza del lungomare». Io dire – senza mezzi termini – che si è reso il lungomare di Napoli praticamente inguardabile. La foto aerea (presa da Google Map) mostra la straordinaria estensione delle scogliere, incredibilmente larghe quanto la strada. Rappresentano un autentico pugno nell'occhio.

Solo nel 2004 l’allora soprintendente Stefano De Caro, ottiene che sia posto, sul lungomare, un vincolo che vieta qualunque tipo di intervento, anche provvisorio. Gli interventi possibili – sanciti dal vigente piano regolatore di Napoli – appaiono ragionevoli e condivisibili. Infatti, l’art. 44 alle Norme d’attuazione al PRG di Napoli stabiliscono che:

«Ogni intervento relativo alla linea costiera come definita al precedente comma 1 è assoggettato all’approvazione di uno strumento urbanistico esecutivo. Nelle more dell’approvazione di tale strumento sono consentiti interventi diretti finalizzati:
a) alla manutenzione ordinaria e straordinaria e al restauro e risanamento conservativo dei manufatti esistenti e non produttivi di inquinamento.
b) all’eliminazione di elementi d’inquinamento quali baracche abusive, scarichi di rifiuti solidi e di liquami, ruderi senza valore storico, impianti in disuso, cartelli, segnaletica, assicurando la libera fruizione dei tratti di costa.
c) alla pulizia e al ripascimento delle spiagge».

Sembrava impossibile, allora, che si potessero realizzare altre scogliere, oltre quelle mastodontiche ed inquinanti, inopportunamente realizzate un quarto di secolo fa.

Sgombriamo il campo da un possibile fraintendimento: le opere di difesa costiera sono indispensabile, soprattutto nelle aree e ambiti sensibili ai fini paesaggistici e ambientali. Vanno, però, realizzate, nel rispetto del quadro normativo di riferimento e solo da chi possieda almeno un minimo di sensibilità estetica. L’operazione è particolarmente delicata sul litorale di Napoli per evidenti motivi storici, ambientali e paesaggistici. Ponderata e avveduta dovrebbe essere la scelta delle tipologie di litotipi da utilizzare per la realizzazione di opere di difesa costiera (pennelli, scogliere soffolte e quant'altro). Invece cosa è accaduto? Che – mentre scrivo – è in corso di completamento un allungamento della mastodontica scogliera posta in corrispondenza della Rotonda Diaz, di ben 170 metri.

Nel 1995 il Centro Storico di Napoli è stato dichiarato, dall’UNESCO, patrimonio dell’umanità e l’area interessata all’ampliamento della scogliera rientra pienamente nella perimetrazione del Centro Storico di Napoli dell’UNESCO, addirittura nel «cuore» dell’area «World Heritage» («Patrimonio Mondiale» - 981 ha). Esistendo, anche, la cosiddetta «Buffer zone» («zona cuscinetto» - 426 ha).

Che dire? Non si possono non condividere la  preoccupazione – manifestata dall’UNESCO – riguardo al patrimonio storico-architettonico della nostra città. Abbiamo sotto agli occhi il fallimento (speriamo “temporaneo”) del Programma Integrato Urbano per il Centro Storico di Napoli – noto col nome di «PIU-Europa», di cui si fece un gran parlare un paio di anni fa – per il quale si disse che erano già stanziati 240 milioni di euro, con la previsione di superare i 500 milioni alla fine del programma, grazie ad integrazioni economiche individuate. Tale programma di intervento è caduto nel dimenticatoio e i soldi già stanziati (quelli che si dissero già disponibili) non si sa che fine abbiano fatto.

Il Centro Storico di Napoli è “attenzionaro” dall’UNESCO da vari anni e si è giunti molto vicino alla cancellazione del sito dalla lista del patrimonio mondiale. Nel febbraio del 2010, una delegazione di amministratori napoletani si recò a Parigi per convincere l’UNESCO che si stava voltando pagina e si espose il suddetto «PIU-Europa», che convinse gli interlocutori ed evitò il rischio di revoca dell’importante riconoscimento.

Cosa potrà fare l’UNESCO quando dovrà prendere atto che, non solo non si mette mano a alla difesa del patrimonio architettonico e monumentale di Napoli, ma si spendono soldi per opere – a mio giudizio – del tutto inopportune?

In parole povere, l’UNESCO fa questo discorso: «Io inserisco la tua località nell’elenco dei siti definiti “patrimonio dell’umanità” perché lo merita, ma tu mi devi garantire che quel sito verrà protetto, difeso e assoggettato a cure assidue, affinché sia trasmesso – nel migliore dei modi – alla posterità. Se non lo fai, io prima ti mando un «rappel» (che è un semplice promemoria, un avvertimento) e se tu te ne fotti, tolgo il tuo sito dall’elenco in cui si trovava e lo inserisco in un altro elenco: quello del patrimonio «in danger», cioè in pericolo». Questa operazione è detta «downgrading» (e «downgrading» altro non significa che «declassamento»). Mi sembra un discorso molto chiaro e molto ragionevole. Per il Centro Storico di Napoli il «rappel» è già arrivato e, continuando di questo passo, non mi meraviglierei se finissimo ufficialmente nella lista del patrimonio «in danger».

Credo che Napoli si trovi di fronte ad una prepotente urgenza: riorganizzare e potenziare la Soprintendenza per i Beni Architettonici Paesaggistici Storici Artistici ed Etnoantropologici per Napoli e Provincia. Il Ministro Lorenzo Ornaghi dovrebbe tenerne conto.